Una curiosa figura per due capitelli

 

Sul mensile il Ponte (anno XXII, numero 4, aprile 2010), in edicola al principio di aprile, viene pubblicato un mio articolo dedicato alla chiesa di San Giorgio Martire a Petrella Tifernina.

Pochi giorni dopo, sabato 10 aprile, su Rai Due va in onda la trasmissione Sereno Variabile: Alberto Bevilacqua visita Bologna, partendo dal complesso di Santo Stefano che la voce popolare usa indicare come le “Sette Chiese” (si tratta, infatti, di vari edifici religiosi attigui, risalenti ad epoche diverse, di cui nessuno porta singolarmente il nome del primo martire cristiano). La telecamera indugia, tra l’altro, su un curioso capitello antropomorfo collocato su due colonnine nel chiostro dei Benedettini.

- Basilica di Santo Stefano, Bologna, capitello del chiostro dei Benedettini -

Incredibile! La figura è del tutto simile ad altre due scolpite su uno dei pilastri della chiesa di Petrella: una sorta di telamone nudo, aggrappato alla struttura architettonica, con la testa che guarda in avanti mentre il corpo è di spalle.

- Chiesa di San Giorgio Martire, Petrella Tifernina, particolare del capitello di un pilastro -

La storia della basilica di Santo Stefano inizia nel 393 quando il vescovo bolognese Eustasio, alla presenza di Sant’Ambrogio, rinvenne in un piccolo cimitero ebraico le spoglie dei martiri Vitale e Agricola uccisi nel 304; i corpi furono riesumati e traslati nel luogo dell’attuale complesso stefaniano ove si ergevano le vestigia di un antico tempio pagano dedicato al culto di Iside.

La tradizione indica in San Petronio (metà del V secolo) il progettista della basilica vera e propria. Nell’VIII secolo i Longobardi occuparono Bologna ed innalzarono, vicino alla chiesa già esistente, la loro cattedrale (oggi chiesa del Santo Crocifisso). Tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo i monaci Benedettini attorno a questo nucleo svilupparono man mano un insieme di spazi che avrebbero dovuto ricalcare il modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme, una ricostruzione simbolica dei luoghi della Passione di Cristo; ad essi subentrarono i Celestini che vi rimasero sino allo scorcio del XVIII secolo quando cominciò un periodo buio: gli affreschi della cupola del Sepolcro, risalenti al Duecento, furono imbiancati e anche l’aspetto di alcune strutture venne modificato.

I numerosi restauri attuati tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento hanno mutato il volto antico del complesso e ridotto a quattro le sette chiese: Santo Crocifisso che risale all’VIII secolo (sotto il presbiterio si trova la cripta con alcune delle colonne originarie); Santo Sepolcro, del V secolo ma ristrutturata nel XII (vi era situata la tomba di San Petronio, protettore della città di Bologna, trasferita nel 2000 nell’omonima basilica); Santi Vitale e Agricola risalente forse anch’essa al V secolo ma distrutta e ricostruita varie volte (conserva i sarcofagi dei due martiri); Trinità o Martyrium (utilizzata dapprima come camposanto e poi come battistero) che ha subito nel tempo numerose ristrutturazioni.

Uscendo dalla chiesa del Santo Sepolcro si accede al cosiddetto cortile di Pilato (il portico è del Duecento) al centro del quale c’è una vasca marmorea con iscrizione longobarda; da qui una piccola apertura, posta in fondo al fianco destro, permette di entrare in una delle più significative creazioni romaniche dell’Emilia, un chiostro a duplice loggiato: massiccio e austero l’inferiore (costruito verso l’anno Mille) con 5 larghe arcate per ogni lato, sorrette da pilastri alternati a tronchi di colonne o colonnine binate; snello ed elegante il superiore (della seconda metà del XII secolo) composto da 4 colonne d’angolo e ben 104 colonnine binate.

Alcuni studiosi ritengono che lo scultore ed architetto del loggiato superiore sia stato il maestro Pietro di Alberico, intorno al 1164; la sua formazione avvenne nei numerosi cantieri allora attivi in Lombardia anche se le partizioni decorative risentono molto dell’influsso della plastica del duomo di Modena. Tuttavia nei telamoni modenesi la figura umana resta pressoché intatta mentre in Santo Stefano l’umano e il ferino si fondono in figure mostruose e beffarde, in un abito espressivo quasi irriverente.

I capitelli maggiormente interessanti sono concentrati sul lato ovest che, insieme al lato nord, è da considerarsi il più antico perché realizzato essenzialmente con elementi di recupero mentre gli altri due lati sono da riferirsi all’epoca di costruzione del chiostro.

Partendo da sinistra si possono osservare: il primo capitello con una testa umana dalla cui bocca escono due volute, il secondo con foglie stilizzate appuntite, il terzo con un telamone rannicchiato a gambe incrociate, il quarto con elementi vegetali, il quinto con la protome di un bue, il sesto con fogliame e volute, il settimo con un telamone sdraiato prono, l’ottavo con elementi vegetali, il nono con un viso incastonato tra volute, il decimo con una protome umana dotata di corna di stambecco, l’undicesimo ancora con elementi vegetali, il dodicesimo antropomorfo con orecchie d’asino, il tredicesimo, infine, con un telamone, aggrappato a due caulicoli, che presenta la testa in posizione innaturale, girata di 180 gradi rispetto al corpo.

Si ritiene che siano tutti opera dello stesso maestro lapicida - forse il già citato Pietro di Alberico - in quanto ripropongono sempre alcuni elementi caratterizzanti quali la bocca serrata, la forma tondeggiante dell’occhio e la pettinatura abbassata a frangetta. Tali sculture, industriosamente variate ma complessivamente simili, tendono ad esprimere sentimenti di desolata sottomissione, resi con rara precisione psicologica.

La tradizione vuole che Dante Alighieri, durante il suo soggiorno bolognese del 1287, passasse molto tempo a studiare e meditare nel silenzio di questo chiostro e che le bizzarre figure umane dei capitelli siano state fonte d’ispirazione poetica per alcune forme di espiazione descritte nella Divina Commedia.

In particolare nel X canto del Purgatorio gli spiriti dei superbi camminano lungo un sentiero tortuoso e stretto, rannicchiati verso terra, allo stremo delle forze, con la testa premuta da macigni, in un doloroso groviglio in cui uomo e sasso si confondono; è un’immagine che richiama alla mente proprio i telamoni (e le cariatidi) che sostengono le arcate, un solaio o un tetto, figure nella cui stessa struttura è manifesta la tensione a cui sono sottoposte, al punto tale che spesso «si vede giunger le ginocchia al petto». Nel XVI canto dell’Inferno, poi, i sodomiti corrono senza sosta in un deserto di sabbia arroventata su cui cade, lenta, una pioggia di fuoco; tre di essi, «nudi e unti», per tenere gli occhi fissi sul poeta, si tengono per mano come in un girotondo voltando la testa completamente all’indietro rispetto al corpo: «ciascuno il visaggio drizzava a me, sí che ‘n contrario il collo faceva ai piè continuo viaggio».

L’immagine dell’omino aggrappato, con il viso al posto della nuca, che possiamo osservare sia nella basilica di Santo Stefano a Bologna che nella chiesa di San Giorgio Martire a Petrella Tifernina  e che, probabilmente, colpì anche Dante, doveva avere nel codice utilizzato dai dotti medioevali un significato preciso; fatto sta che viene riproposta, identica, a tanti chilometri di distanza, in ambienti sociali e culturali molto differenti.

È da rilevare, inoltre, che sempre a Petrella, sullo spigolo meridionale dell’antico castello si trova una piccola scultura molto simile; riproduce una specie di gnomo seduto con la parte inferiore del corpo vista da dietro e con la parte superiore, testa e le braccia, di prospetto.

Secondo alcuni studiosi le misteriose figure della chiesa di San Giorgio Martire sarebbero due anziani (le incisioni sul volto simulerebbero le rughe) che, caricati di forza divina, innalzano l’ultimo pilastro dell’edificio e, a causa della forte tensione cui sono sottoposti, subiscono la torsione della testa. Altri, invece, interpretano i personaggi come funamboli che sfidano la morte emblematizzata dal bucranio, ovvero dal toro, e trionfano su di essa.

Del resto anche i telamoni ignudi (che fungono da mensole) nella parte esterna del duomo di Modena compiono acrobazie e possono essere ricondotti allo stesso significato.

La simbologia potrebbe, inoltre, essere più semplice: ad esempio l’uomo che, illuminato da Dio, riesce a vedere alle sue spalle, dove agli altri non è possibile, quindi oltre la visione comune. Oppure si tratterebbe solamente di una violenta rotazione, un po’ fumettistica, del capo dovuta allo schiacciamento, all’enorme peso che si sarà costretti a sopportare in conseguenza del peccato (architrave).

C’è un’altra ipotesi più azzardata; osservando con grande attenzione l’ignudo di Bologna dal basso si nota che tra le natiche lo scultore ha reso con grande perfezione anatomica l’orifizio dell’ano. Si tratta di una immagine “oscena”?

- Basilica di Santo Stefano, Bologna, capitello del chiostro dei Benedettini (scorcio dal basso) -

Le raffigurazioni in cui vengono mostrati genitali e atti erotici sono relativamente frequenti negli elementi decorativi delle chiese medioevali; si trovano, ad esempio, nella chiesa della Visitazione (XIII secolo) a Bruyères Montheralt in Francia, nella chiesa parrocchiale di Saint-Marcel (XV secolo) sempre in Francia, nella chiesa benedettina di Ciudad Rodrigo (XIV secolo) in Spagna, sulla facciata del duomo di Trasacco (XIV secolo) in provincia dell’Aquila. Famosa è specialmente la cosiddetta «potta modenese» (inizi XII secolo) - un ermafrodito con viso e lunghi capelli femminili, il seno e tra le gambe spalancate gli organi genitali maschili - scolpita su una grande metopa del duomo di Modena.

- Duomo di Modena, metopa scolpita -

Il telamone nel chiostro di Santo Stefano sarebbe, dunque, l’immagine “sintetica” di un sodomita, o meglio di un invertito. Di uno di quei peccatori - violenti contro natura - che Dante collocherà, poi, nel VII cerchio della voragine infernale. La testa girata, “invertita” rispetto al corpo prono, alluderebbe per l’appunto a quella che al tempo (e non solo allora) veniva considerata una pratica sessuale perversa, un grave crimine.

Rappresentazioni simili a quelle finora considerate si possono individuare anche sull’ambone della chiesa di Santa Maria del Lago a Moscufo (provincia di Pescara), sull’ambone della chiesa di Santo Stefano a Cugnoli (ancora in provincia di Pescara), su un capitello della diruta abbazia di San Bruzio a Magliano (provincia di Grosseto), inoltre sono piuttosto diffuse in Francia e in alcune cattedrali normanne della Sicilia. Quelle di Moscufo e Cugnoli (omini che scalano colonnine angolari) sono, purtroppo, acefale ma la posizione della testa, completamente girata all’indietro, è ancora ricostruibile; quella sul capitello di Magliano, poi, è proprio uguale, nella forma e nella posizione, alle due oggetto di questa indagine.

- Chiesa di Santa Maria del Lago, Moscufo, particolare dell'ambone -

- Abbazia di San Bruzio, Magliano, particolare del capitello di un pilastro -

Qualcuno può ricostruire (o ha già ricostruito) con precisione il significato attribuito dagli eruditi medioevali a questa curioso personaggio scolpito a Bologna, a Petrella Tifernina e in tutti gli altri luoghi citati?

                                                                                                                                                                                    Alessandro Cimmino                       


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Disegni, elaborazioni grafiche e foto, ove non specificato, sono dell'autore. Articolo originale (inedito sulla stampa) per il sito web "Associazione Falco" (www.associazionefalco.it), pubblicato in data 30 aprile 2011.