CIVITAS SUPERIOR

 

Il borgo di Civita svetta sul pianoro del monte che si erge, ripido come un muraglione, a ridosso di Bojano, a 720 metri di altitudine.

Scavi archeologici e rinvenimenti casuali hanno portato alla luce reperti che documentano la presenza di popolazioni italiche stabili (V-IV secolo a.C.). Secondo alcuni studiosi qui fu eretto il primo insediamento sannita di Bovaianom che, come per Saipins (Sepino), si estese più tardi a valle lungo la direttrice del tratturo. Un interessante reperto archeologico, il fregio relativo ad un monumento funerario del I secolo a.C. - raffigurante un trampoliere su metopa dorica - rinvenuto nel sito, ne testimonia la frequentazione anche in epoca romana.

La località fu, poi, abbandonata per le vicende legate alla crisi dell’Impero romano e non più utilizzata fino allo scorcio dell’Alto Medioevo quando, durante la dominazione longobarda, le incursioni saracene divennero frequenti e nell’ambito di quel processo definito incastellamento - postazioni erette sulle alture a protezione di città e strade di fondovalle - venne edificata una rocca.

Tra il IX e il X secolo, il clima di profonda insicurezza ed i mutamenti sociali portarono ad una trasformazione dell’organizzazione urbana di Bojano, la cui parte preminente venne collocata sul monte, con un grande ridimensionamento della zona pianeggiante; il nuovo borgo fortificato prese la denominazione di Civitas Superior (Città Superiore).

Intanto si era dato inizio anche alla costruzione del primo nucleo del castello, per ottemperare agli obblighi di controllo che i conti longobardi dovevano assolvere sui territori di loro competenza. Molti storici dubitano, però, che essi abbiano utilizzato la struttura come residenza e sostengono che si trattasse solo di un sistema, seppur complesso, di avvistamento e difesa.

- Ricostruzione grafica del castello e di parte della cinta muraria di Civita Superiore -

Il maggior impulso alle opere di ampliamento si ebbe durante il dominio dei Normanni, intorno al 1050. Essi, in base alla precedente esperienza francese, sentirono di più il senso di proprietà terriera e, di conseguenza, il bisogno di difendere i possedimenti da eventuali aggressioni; potenziarono, quindi, i fortilizi, ricavando, inoltre, al loro interno, dimore più sicure per il signore e per i cortigiani.

Le strutture oggi visibili della cortina muraria, del castello e di parte dell’abitato risalgono al XII-XIII secolo.

- Cinta muraria e Porte del borgo medioevale -

Il lato sud della murazione è quello meglio conservato; presenta due torri e si distinguono ancora un avancorpo (impropriamente denominato bastione; difatti il bastione - opera a pianta poligonale ove venivano collocati i pezzi da fuoco - è un’invenzione degli ingegneri militari del Rinascimento) ed i merli inglobati in costruzioni più recenti. Il lato est è quasi del tutto mancante, fatta eccezione per dei brevi tratti e per i ruderi di una torre circolare; la cinta proseguiva dalla chiesa di San Giovanni (o Santa Maria del Colle) fino ad una torre angolare, parzialmente conservata, che guarda verso la città a valle.

- Torre d’angolo sud-est -

- Lato est, tratto delle mura e torre circolare -

Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, il versante a nord fu completamente distrutto da uno scellerato intervento, i resti vennero inclusi nell’armatura di sostegno dell’attuale belvedere. Molto danneggiato risulta anche il lato ovest: le mura scomparse raggiungevano ed inglobavano il castello posto sulla parte più alta del rilievo.

La cerchia presentava tre porte, una su ogni lato, con esclusione di quello ovest; ciò è confermato anche dalla viabilità, sia interna che esterna. Permangono ancora i toponimi: Porta a monte a sud, Porta da basso ad est (detta anche Porta dell’acqua poiché da essa cominciava il cammino per la sorgente delle Pietre Cadute, posta nella piana) e Portella a nord.

- Ipotesi di ricostruzione di Porta a monte -

All’interno due sono i percorsi principali: quello che, dal luogo in cui si ergeva il fornice d’accesso a monte, il più importante, conduce a largo Chiesa, ove era il varco a settentrione, e l’altro che, da quest’ultimo, seguendo l’andamento sinuoso del pianoro, gira sul fianco della montagna per poi deviare e raggiungere, in basso, l’entrata ad oriente. Su di essi si innestano, tortuosamente, tutte le strade.

Il tessuto urbano si divide in quattro rioni: San Giovanni, Fossi, Portella, e Giudecca. Il nome Giudecca, che generalmente indica il ghetto, il luogo ove vivevano appartati gli Ebrei, è sempre stato motivo di curiosità. Stando ad alcuni studiosi fu l’imperatore Federico II di Svevia, nel XIII secolo, quando prese possesso del castrum, ad inviare, come usava generalmente per amministrare i suoi territori, anche un gruppo di Ebrei e un manipolo di Saraceni.

- Quartiere Giudecca -

Tuttavia, in origine, quest’area era occupata dal pomerio: una striscia di terreno - che correva, all’interno, lungo tutta la cortina muraria - interdetta, per motivi difensivi e di sicurezza, sia alla coltivazione sia all’edificazione. Pertanto, le attuali abitazioni, sorte addossate al muro di cinta, sono da ascrivere ad un periodo successivo a quello svevo, forse all’età rinascimentale, alla ricostruzione avvenuta dopo gli eventi sismici del 1456.

È da rilevare, inoltre, che nel Catasto Onciario del 1744 non appare mai il toponimo “Giudecca” (si trova invece “Costa di Melfi”); ciò fa pensare che la denominazione sia un’acquisizione più recente. Probabilmente essa non era collegata direttamente alla presenza di popolazione giudea ma si riferiva, in modo spregiativo e discriminante, al gruppo sociale cui era riservato il rione oppure, più semplicemente, alludeva all’isolamento del quartiere stesso.

Benché pochi, i ruderi del castello, parzialmente rimessi in luce e restaurati, ci danno l’idea di come dall’alto di questo imponente edificio - lungo 116 metri, largo 30, con un torrione circolare all’angolo di sud-ovest - si dominasse gran parte della valle del Biferno.

I suoi resti fino agli inizi del Novecento erano ancora abbastanza consistenti; purtroppo il completo abbandono, la posizione molto esposta ai venti e alle altre intemperie ne hanno accelerato il deterioramento. Le ispezioni archeologiche hanno evidenziato, attraverso lo studio dei materiali rinvenuti, che il periodo di massima frequentazione fu quello compreso tra il XIII e la prima metà del XIV secolo.

In posizione elevata rispetto al borgo, il castello di Civita possiede tratti originali se confrontato con gli altri fabbricati difensivi medioevali del Molise, caratterizzati da distribuzioni volumetriche decisamente più compatte.

- Castello di Civita (ricostruzione di Oreste Muccilli, plastico di Nicola Patullo) -

L’edificio si articolava - secondo una plausibile ricostruzione - in due blocchi divisi da un fossato, ottenuto scavando la roccia, alla cui estremità era collocato anche l’ingresso principale all’intero complesso. La prima zona (ricetto) è rivolta verso l’abitato ed era destinata ad accogliere e proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo. Essa si presenta, attualmente, come un ampio spazio a pianta rettangolare, circondato da possenti mura sulle quali, in alcuni tratti, è possibile distinguere ancora i percorsi di ronda.

Il collegamento con la seconda zona, separata dal fossato, avveniva attraverso un ponte levatoio. In questo blocco erano contenuti: il mastio (o maschio) con l’armeria e la dimora del conte - parzialmente individuabile nel corpo centrale più elevato -, la cosiddetta corte alta e un torrione circolare.

Dalle strutture rinvenute nella corte alta, si evince che era destinata ad ospitare le famiglie degli addetti alla custodia, i fabbricati di servizio (alloggi, magazzini, cucine e stalle) e, con molta probabilità, anche una piccola cappella. Le principali attività quotidiane degli abitatori dovevano, dunque, svolgersi qui, in un’area scoperta, chiusa da una solida muratura.

Dalla fine del XIII secolo, in documenti e cronache a noi conosciuti, non si fa più riferimento al maniero, tuttavia è verosimile che sia stato governato da castellani almeno fino al grande terremoto del 1456.

Il borgo, dopo un lungo periodo di abbandono determinato dalla crisi dell’economia silvo-pastorale, dalle frequenti carestie e dalle virulente epidemie di colera e di peste, intorno alla metà dell’800 ricominciò ad avere un considerevole numero di residenti (più di mille). Infatti in quel periodo il Municipio, come attestano alcuni timbri apposti ai documenti conservati nell’archivio storico comunale, assunse la denominazione: Comune di Bojano e Civita Superiore.

Ma, a partire dai primi decenni del Novecento, molti incominciarono ad emigrare, dirigendosi soprattutto verso l’America, sia settentrionale che meridionale e verso quei Paesi Europei che offrivano migliori prospettive di vita; il fenomeno assunse ben presto l’aspetto di un vero e proprio esodo, sconvolgendo radicalmente il tessuto sociale ed avviando un lento ma inesorabile processo di perdita di quella cultura contadina che caratterizzava il villaggio.

Oggi Civitas Superior - quasi del tutto disabitata, vi risiedono stabilmente circa cinquanta persone - attende progetti di conservazione e promozione turistica (“albergo diffuso”, bed and breakfast, agriturismo).

La conservazione è, certo, fondamentale ma non deve diventare un organismo mummificato; ogni occasione di vivificare il borgo andrebbe accolta positivamente, evitando, però, anacronistiche operazioni di ripristino, completamento ed ingannevole restauro in senso stilistico.

Non si può ricostruire, se non virtualmente, quello che la storia, la natura e l’incuria hanno distrutto ma si può e si deve valorizzare quello che rimane.

                                                                                                                                                                                           Alessandro Cimmino


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Disegni, elaborazioni grafiche e foto, ove non specificato, sono dell'autore.

Articolo pubblicato sul trimestrale "Altri Itinerari", n. 11, autunno-inverno 2006, pp. 14-18.