L’inespugnabile Rocca Magenulfi

 

Al principio del secolo Mille il signore delle Terre di Bojano, Magenulfo (Maghenolfus), nobile beneventano, realizzò nuove fortificazioni per proteggere il territorio; tra queste probabilmente Roccamandolfi la cui derivazione toponomastica da “Rocca Magenulfi” sembra palese.

- Veduta panoramica di Roccamandolfi (foto di Michele Mainelli) -

La località, come si evince dalle fonti storiche, ebbe nel corso del tempo denominazioni diverse, ma sempre con la stessa radice: Rocca Magenula nel XII secolo; Rocca Minolfa e Rocca Raginulfa nel XIII secolo; Rocca Ginolfi nel XVI secolo. L’attuale denominazione di Roccamandolfi fu acquisita, infine, nel 1737.

La fortezza, innalzata, dunque, in età longobarda, a controllo di uno dei passi (tra Molise e Campania) più pericolosi del massiccio del Matese, assunse nel periodo normanno la particolare forma architettonica ancora riconoscibile nel rudere che sopravvive: una solida cortina fortemente scarpata; due torri a base circolare, una ad oriente e l’altra ad occidente; tre torri a base semicircolare che si affacciano, con centro oltrepassato, sul lato meridionale; il versante a settentrione - dove la parete rocciosa cade quasi a picco - irregolare e privo di avancorpi; una rampa che, con evidenti adattamenti alla superficie del terreno, conduce all’ingresso posto sul lato orientale.

Il castello venne progettato e realizzato in modo tale da renderlo inespugnabile, sulla sommità di un alto monte - 1080 metri di quota - che presenta pendii assai scoscesi e sentieri aspri ed impraticabili.

- Pianta del castello con le diverse fasi di edificazione -

Si possono individuare, con un esame approfondito delle strutture emergenti, tre fasi sostanziali nel processo di edificazione, non necessariamente molto distanti tra loro. La prima, la più antica, è relativa al torrione quadrangolare (mastio) posto nell’angolo nord, caratterizzato da una muratura spessa in cui si aprono due grandi feritoie; la seconda ad un notevole ampliamento, con la creazione del muro a scarpa e delle torri circolari e semicircolari; la terza all’organizzazione degli spazi interni mediante piccoli ambienti quadrangolari (il vano più ampio che occupa l’ingresso venne, poi, quando il castello era ormai in abbandono, riutilizzato per fondare la chiesa di Santa Maria del Castello, citata e definita “diruta” in alcuni documenti del Settecento).

Agli inizi del secondo decennio del XIII secolo, una intricata vicenda di assedi, incendi e distruzioni si svolse nel Contado di Molise, in special modo intorno a questo castello.

È Riccardo di San Germano, monaco e notaio nell’abbazia di Montecassino, testimone del suo tempo, a fornirci nella Chronica (1189-1243) un preciso resoconto dei fatti.

- Federico II di Svevia in una miniatura del XIII secolo (Biblioteca Vaticana) -

Federico II di Svevia (1194 - 1250) - della famiglia Hohenstaufen, figlio di Enrico VI e Costanza d’Altavilla, nipote di Federico I Barbarossa -, re di Sicilia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero, è considerato da molti il più grande monarca che si sia mai assiso su un trono d’Europa; uomo di vasta e composita cultura, conosceva tante lingue: il greco, il latino, l’arabo, il provenzale, il francese, il tedesco e l’italiano, di spirito eccezionalmente aperto (sapeva “usare” e frequentare saraceni ed ebrei, manteneva un numeroso harem con donne e anche uomini a sua disposizione), artista raffinato e protettore di architetti, scultori, dotti e poeti (presso la sua corte palermitana nacque il “volgare”, poi perfezionato dal genio di Dante; fondò a Napoli, nel 1224, l’Università degli studi - uno Studium, totalmente indipendente dall’ambito ecclesiastico - che porta ancora il suo nome).

In campo politico mirò a creare un potere centrale forte ed antifeudale; nel dicembre 1220 la prima Magna Dieta a Capua si concluse con l’emanazione dei capitoli di un Testo Unico che undici anni dopo sarà promulgato a Melfi (Costituzioni di Melfi): gran parte dell’autorità di baroni e conti era trasferita a funzionari statali e l’ereditarietà degli uffici abolita (De privilegiis resignantis), la proprietà fondiaria di conventi, abbazie e vescovati veniva limitata (Quod loca stabilia), le fortificazioni che i signori locali più potenti avevano fatto erigere nelle proprie terre dovevano essere abbattute (De novis aedificiis diruendi).

A vigilare sul rispetto di queste norme fu nominato, quale giustiziere, anche un esponente della feudalità molisana: Teodino di Pescolanciano.

Federico II, nella scelta delle rocche da requisire o da abbattere, era stato guidato unicamente da motivazioni strategiche e il Molise (l’antico Sannio Pentro) rappresentava una zona nevralgica per le comunicazioni tra l’Italia meridionale e quella centro-settentrionale. Una strada importante di collegamento tra Roma e Bari era quella che, staccandosi dalla via Latina presso Venafro, proseguiva per Isernia, Bojano, Sepino e Benevento; un percorso accidentato, in un territorio impervio - vista la conformazione orografica -, controllato da un “sistema” di fortificazioni e castelli, tutti in possesso di un potente signore: Tommaso, conte di Molise, di Celano e di Albe.

Questi, guelfo dichiarato, unico grande assente alla cerimonia di incoronazione - svoltasi nel novembre dello stesso 1220 -, osò opporsi sia ai provvedimenti della Dieta di Capua che alle successive sanzioni e, di conseguenza, venne attaccato. Disponendo di più di 1500 uomini, tra cavalieri e servientes, si rifugiò in Rocca Magenulfi lasciando la moglie Giuditta, descritta dagli storici come «donna vigorosa e guerriera», a difesa di Rocca Bojano (Civita Superiore).

L’esercito reale, guidato da baroni fedeli a Federico II - tra questi anche Riccardo, fratello dello stesso Tommaso -, senza colpo ferire, riuscì ad occupare la città “bassa” di Bojano al principio dell’anno 1221. Tommaso, con un assalto improvviso, mise in fuga i baroni, incendiò e saccheggiò l’abitato trasferendo poi il bottino, le munizioni ed i viveri nella fortezza di Civita Superiore, ancora in possesso della moglie.

Successivamente la famiglia comitale riparò nella più sicura Rocca Magenulfi; Tommaso d’Aquino, conte di Acerra e maestro giustiziere di Puglia e Terra di Lavoro, pose l’assedio a Rocca Bojano e, dopo averla conquistata, si spostò al castello di Roccamandolfi. A quest’ultima operazione partecipò anche lo stesso Federico II che giunse sul luogo nel 1222 (l’intervento personale dell’imperatore dimostra quanto fosse essenziale per lui sottomettere il conte di Molise, uno dei signori più potenti del Regno di Sicilia), con altre truppe, per accelerare la resa.

Tuttavia il castello reggeva gli assalti, pareva imprendibile; Tommaso, considerando che se fosse stato catturato insieme alla moglie sarebbe svanita per sempre ogni speranza di ulteriore opposizione, ritenne opportuno fuggire dapprima ad Ovindoli, presso il cognato Ruggero di Anversa, e poi a Celano.

Giuditta, ancora una volta, rimase sola, a tutela di Rocca Magenulfi.

Il conte di Molise, quindi, portò la rivolta anche nella regione marsicana ove, con l’aiuto dei suoi feudatari fedeli, depredò ed incendiò Paterno. L’esercito, sempre al comando del conte di Acerra, dopo aver mosso verso Celano e sconfitto i ribelli, tornò, a sorpresa, a Roccamandolfi costringendo alla resa la contessa.

Nell’aprile del 1223, finalmente, si giunse ad un trattato di pace: si stabilì l’esilio di Tommaso per almeno tre anni e la reintegra di Giuditta nei suoi possedimenti (essendo nipote di Riccardo di Mandra era la legittima erede della contea di Molise, portata in dote al marito con il matrimonio), eccetto il castello di Bojano che il sovrano volle riservare per sé con lo scopo di poter meglio esercitare il controllo su un importante territorio posto a confine tra Terra di Lavoro, Principato di Benevento e Puglia.

Il castello di Rocca Magenulfi, invece, venne reso inutilizzabile e in gran parte distrutto.

- I ruderi del castello di Roccamandolfi in una foto di Michele Mainelli (in alto) e in una foto satellitale (in basso) -

Alla fine del 1269 il nuovo re di Napoli, Carlo I d’Angiò, per catturare un gruppo di Catari (aderenti ad un movimento ereticale che, professando ascetismo severo e disprezzo per la potenza e la ricchezza, si opponeva sia all’istituzione ecclesiastica sia all’ordine costituito statale, ritenuti entrambi espressioni del demonio), stabilitisi nel fortilizio parzialmente ripristinato, inviò delle truppe guidate da Berardo di Rayano. Le operazioni non durarono molto: gli eretici, sconfitti, furono condotti a Capua dove vennero giudicati dal tribunale dell’Inquisizione; nell’aprile 1270 il sovrano fece, dunque, smantellare definitivamente il castrum e trasferire gli abitanti, che vivevano nel piccolo borgo ai suoi piedi, in un altro sito - chiamato «Casale» - posto circa duecento metri più in basso (verosimilmente ove sorge l’attuale paese).

Roccamandolfi, passata attraverso varie titolarità, intorno al 1586 fu venduta alla famiglia Pignatelli, che ne mantenne il possesso fino all’eversione della feudalità.

Ancora oggi viene popolarmente ricordata come la patria dei briganti: «D’ ddò sì? D’ la Rocca. Ah... allora sì nù br’and’!». In effetti il luogo è stato interessato da diversi fenomeni di brigantaggio favoriti dalle caratteristiche del territorio, che offriva nascondigli sicuri.

Alcune storie riecheggiano ancora tra i vicoli; soprattutto quella della bella Lucia che, al principio dell’Ottocento, fu l’amante del brigante Sabatino, detto Il Maligno. Questi era una persona semplice, un umile pastore ma venne accusato -  da un potente signore che gli insidiava la moglie - di crimini mai commessi. Catturato dalla polizia borbonica, fu condotto nelle carceri di Capua da dove riuscì rocambolescamente ad evadere, passando per le fogne. Tornato sui suoi monti organizzò, insieme alla sua nuova donna, Lucia, una bella e volitiva contadina, una banda che colpiva con attacchi ed imboscate. Il 12 giugno del 1812 fu trovato ucciso, si disse che erano stati gli altri briganti; i gendarmi gli mozzarono la testa e, a monito di tutta la popolazione, la posero, al centro del paese, nel supportico ove si svolgeva il mercato, sul foro più grande dei tomoli (misure in pietra - di origine medioevale - utilizzate per la valutazione quantitativa dei cereali).

Lucia raggiunse allora i ruderi dell’antico castello e, fiera ed indomita come quella fortezza che aveva fronteggiato il grande svevo, saltò giù nel dirupo.

                                                                                                                                                                                           Alessandro Cimmino


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Articolo pubblicato sul mensile "Il Ponte", a. XXI, n. 5, maggio 2009, pp. 41-43.